LA MAGIA DEL SILENZIO – Mostra di Antonio Donghi – Roma
ROMA, PALAZZO MERULANA, MOSTRA ANTONIO DONGHI. LA MAGIA DEL SILENZIO
DAL 9 FEBBRAIO AL 26 MAGGIO 2024
Il percorso artistico di uno dei maggiori interpreti del Realismo magico in Italia, riscoperto attraverso una serie di autentici capolavori
Antonio Donghi fu uno dei maggiori interpreti del Realismo magico in Italia. Il suo immaginario astrattivo, al tempo stesso realista, ha impressionato gli studiosi e il pubblico, dopo un silenzio critico di molti decenni, a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, al punto che le sue opere sono ormai incluse nella maggior parte delle rassegne internazionali sugli anni Venti e Trenta, fino a comparire sulle copertine dei relativi cataloghi come immagine iconica di quel contesto. La sua ricerca, appartata e silenziosa, nella sua epoca aveva attirato l’interesse di critici importanti, ma la sua altezza si è rivelata appieno con una riscoperta relativamente recente. A questo straordinario artista dal 9 febbraio al 26 maggio 2024 Palazzo Merulana dedica la retrospettiva Antonio Donghi. La magia del silenzio, che permetterà ai visitatori di conoscere e ammirare una serie di autentici capolavori, alcuni esposti al pubblico per la prima volta. La mostra è stata realizzata grazie al sostegno del Main Sponsor UniCredit, che ha anche contribuito con sedici importanti prestiti delle opere di Donghi, provenienti dalla straordinaria collezione esposta a Palazzo De Carolis, sede di rappresentanza del gruppo bancario a Roma, ed è prodotta da CoopCulture.
LE OPERE
Sono raccolte trentaquattro opere, prevalentemente acquistate direttamente alle maggiori mostre del tempo (Biennali di Venezia, Quadriennali di Roma, ecc.) o altrimenti reperite sul mercato. Il progetto espositivo intende presentare i nuclei più significativi provenienti dalla Galleria Comunale d’Arte Moderna di Roma, dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna, dalla Banca d’Italia, dalla UniCredit Art Collection e dalla Fondazione Elena e Claudio Cerasi, che nel loro insieme rappresentano l’intero percorso dell’artista, toccandone tutti i temi principali: paesaggi, nature morte, ritratti, figure in interni ed esterni, personaggi del circo e dell’avanspettacolo. In particolare, la mostra si pone come approfondimento di uno dei principali nuclei pittorici rappresentati nella Fondazione Elena e Claudio Cerasi, che possiede ed espone in permanenza tre fondamentali capolavori donghiani: Le lavandaie (1922-23), primo vertice in assoluto del maestro; Gita in barca (1934); Piccoli saltimbanchi (1938). Solo tre dipinti particolarmente iconici (La Pollarola, Ritratto di Lauro De Bosis, Annunciata), legati in diverso modo alla collezione Cerasi, sono inseriti al di fuori del nucleo delle collezioni pubbliche. Sulla trama delle opere di Donghi in queste collezioni è possibile ricostruire interamente il suo percorso artistico. Rimeditare il ruolo, il metodo, le aspirazioni di questo artista chiuso e difficile, ma al tempo stesso creatore di opere uniche e impressionanti per il loro clima sospeso, per la densità di interrogativi che pone allo spettatore, pur nell’apparentemente nuda realtà in cui sono presentati gli anonimi protagonisti dei quadri, appare oggi un doveroso passo in avanti per la sua conoscenza. La curatela dell’attesa retrospettiva a Palazzo Merulana è affidata al prof. Fabio Benzi, che proprio per lo stesso museo aveva curato nel 2019 la mostra-studio Giacomo Balla, dal Futurismo astratto al Futurismo iconico. Con questo nuovo progetto espositivo Benzi, da profondo conoscitore della pittura della seconda metà del XIX secolo e del XX secolo, con appassionato spirito d’indagine si interroga sulle ragioni del repentino passaggio dell’artista, tra la fine del 1922 e l’inizio del 1923, da uno stile basato su una tradizionale pittura di matrice ottocentesca a una visione completamente rinnovata, capace di inserirsi e incidere nell’avanguardia europea. Al contempo intende aggiungere alla rivisitazione del percorso artistico donghiano non solo uno studio, ancora mancante, sulle sue fonti culturali estremamente eclettiche, volte a far riviver in forme nuove i ritmi interni della pittura classica italiana, ma anche una riflessione sull’importante ruolo che alcune collezioni pubbliche romane hanno svolto, attraverso la raccolta delle sue opere, per la conoscenza e diffusione della sua arte.
ESSENZA DI ROMANITÀ
Donghi è un pittore nitidamente romano nella sua natura e nella cultura dell’epoca, come emerge anche dagli stupendi paesaggi della città e dei suoi dintorni, in cui l’artista sembra voler estrarre la componente atmosferica per farli vivere di una vita immobile ed eterna. In questo senso anche le collezioni romane, pur considerando la sua presenza non indifferente in moltissime altre istituzioni museali italiane, hanno letto in questa sua profonda essenza di romanità una ragione di collezionismo eccezionale, che non si è invece realizzata per i molti altri pittori operanti nella Capitale negli anni tra le due Guerre. Antonio Donghi, nato a Roma nel 1897, appartiene alla generazione appena troppo giovane per aver vissuto e condiviso le istanze moderniste delle Secessioni romane come della prima fase del Futurismo, che si colloca con la sua maturità negli anni del primissimo dopoguerra: cioè a contatto con le istanze del ritorno all’ordine. Contribuì allo sviluppo di quell’ottica di riscoperta di radici tradizionali, piuttosto che percorrere una strada di decostruzione formale avanguardistica. Nonostante ciò, la sua tecnica particolare riuscì a enucleare una visione largamente condivisa in ambito romano e italiano, portandola a risultati di grande altezza ed espressività, pur non essendo tra i fondatori o i teorici di tale ottica. Da Giotto alla pittura rinascimentale, da Raffaello all’arte del Seicento, l’artista fornisce una lettura in cui le fonti sono talmente introiettate da risultare nascoste e quasi invisibili attraverso la griglia solida, architettonicamente impenetrabile, delle sue composizioni.
IL PITTORE CHE PONE DOMANDE
La critica ha parlato spesso di Donghi come di un pittore che pone domande invece di dare risposte. La sua passione per il teatro, per le maschere, sembra celare volontariamente la realtà dei personaggi rappresentati. Una delle strade per approfondirne e spiegarne la storia artistica è quella di ricercare in dettaglio il suo meccanismo creativo, individuando dalle flebili tracce pittoriche l’evoluzione e il contesto culturale che esprime in modo così compulsivamente interiorizzato. Donghi coglie la radice formale dell’arte antica e al contempo l’espressione meno aulica del costume nazionale; diviene il poeta malinconico di un’Umanità che sembra essere a un bivio. La lenta tradizione romanesca o la modernità dei tempi nuovi? In questo scontro di nuove identità borghesi, di un mondo che cambia e in cui le tracce di un passato popolaresco ma vivo si mescolano alle nuove mode di intrattenimento e di emancipazione femminile, i personaggi sembrano davvero interrogarsi sulle loro identità, come in una commedia di Pirandello o di Bontempelli, figure incerte di se stesse e del loro ruolo nel mondo. E forse incerte persino del presente, presaghe di una tragedia latente che si stava consumando intorno a loro: personaggi in bilico tra fascismo opprimente e rilassata quotidianità, come il cappello sul sigaro di un equilibrista.